Una filastrocca che nasconde una storia di secoli
O Signor da Vidor ciolé la barca e vegnéme a cior,
che quel da Zian l’é n poro can,
quel da Bigolin l’é massa picenìn,
quel da Col nol me vol
e de quel de Onigo no me fido!
(O Signore da Vidor, prendete la barca e venitemi a prendere, che quello di Ciano è un poveraccio, quello da Bigolino è troppo piccolino, quello di Covolo non mi vuole e di quello di Onigo non mi fido!).
La prima testimonianza del passo Barche di Vidor, inteso come guado del Piave è il diritto di transito che venne istituito nel 1106.
Durante il medioevo il Piave poteva essere attraversato, a partire da Feltre: a Busche, dove esisteva anche un ponte fisso, a Vas dov’era stato allestito un passo barca, a Fener dove oltre ai barcaioli esisteva anche un porto di zattere, a Vidor, appunto sul passo Barche, a Santa Mama di Ciano e a Falzé; in pianura, il fiume era attraversabile a Nervesa, Mandre, Ospedale di Piave, Candelù e Ponte di Piave.
Tuttavia il guado di Vidor era uno dei più usati trovandosi in un punto strategico tra i feudi medievali.
I servizi di traghettamento erano gestiti da famiglie di barcaioli che facevano a loro volta capo alle varie casate dell’epoca: i Da Vidor, i Da Romano, i Da Camino…
Ma l’unica famiglia che dava certezza e sicurezza nel traghettaggio era quella dei Reghin da Vidor che gestivano il guado più sicuro, più facile e corto da attraversare. È questo il barcaiolo che viene identificato come il famoso “Signor da Vidor” della filastrocca.

Il traghetto trasportava da una parte all’altra del Piave, merci, persone e animali e i barcaioli erano conosciuti come “passatori”. Le tariffe andavano dai due denari per il passaggio di una persona ai sei per quello di un cavallo; funzionari governativi e militari non erano tenuti a pagare il passaggio.
A Vidor il servizio di traghettamento era concesso in locazione dal monastero benedettino di Santa Maria di Vidor che ne aveva piena giurisdizione e al quale spettavano gli eventuali dazi sul trasporto delle merci dei numerosi commercianti che si servivano del barcaiolo.
Anche la popolazione di Vidor era esente dagli esosi costi di traghettamento; la gente dei paesi limitrofi, che spesso non poteva permettersi l’attraversamento, era ovviamente molto invidiosa del privilegio dei vidoresi.

I barcaioli rimasero in servizio fino al 1871, anno di costruzione del primo ponte di legno sul Piave.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, molti si improvvisarono traghettatori per sostituire il ponte distrutto dai nemici.
Ma com’era gestito il guado ai tempi d’oro?
Niente di più semplice: un pontile di legno, una barca per il servizio di trasbordo; una taverna di paglia, che veniva usata anche per dare ospitalità ai viandanti, e una casupola di pietra che era anche l’abitazione dei barcaioli.

Che cosa è rimasto ai giorni nostri?
A Covolo, in località Barche c’è un unico muro dove si può ancora vedere la “sciòna”, l’anello di ferro che serviva all’attracco delle barche.

All’Abbazia di Santa Bona invece si può ancora vedere il gancio dove veniva fatta passare la catena o, più anticamente, la fune, al quale il barcaiolo poteva assicurarsi in caso di pericolo.
Una volta appurata l’identità del “signor da Vidor” resta il significato che si è tramandato nel corso degli anni di quella che è diventata un’esclamazione tipica del nostro territorio che va al di là delle origini puramente storiche e può essere assimilata a: “Oh cielo!”, a esprimere sorpresa e stupore. Ma è anche un: “Oh Signor vienimi a prendere che qua è una disperazione!”, usata in tempi passati come anelito di speranza.
Molto spesso, infatti, l’attraversamento del Piave era solo l’inizio di un viaggio verso un futuro migliore…

Debora Donadel
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