Sono rimaste quattro celle, delle quattordici esistenti, ma sono di certo, quelle casette tutte uguali che si scorgono dalla strada, gli elementi che sollecitano la curiosità di chi si trova a passeggiare tra i colli di Rua di Feletto…

Quelle quattro casupole, ognuna con il suo giardinetto a lato, sono infatti ciò che resta dell’antico eremo camaldolese sorto in cima al colle Capriolo intorno alla seconda metà del 1600.

Nel 1665 il patrizio veneziano Alvise Canal donò il colle Capriolo con la sua piccola chiesa, un palazzo e i cinquanta campi che lo attorniavano alla “Congregazione degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona” che avevano fondato, nel 1573, il loro eremo sul Monte Rua a Torreglia (Padova), nel cuore dei colli Euganei.

Ecco svelata l’origine del nome del ridente paese del felettano.

Il colle Capriolo era “la più amena altura che si trovasse entro i confini dell’Antichissima Pieve di S.Pietro di Feletto” o perlomeno così la definisce Monsignor Nilo Faldon nel suo “La Pieve Rurale di S.Pietro di Feletto” del 2005. Qui i monaci vestiti di bianco edificarono, presso la chiesetta preesistente, le quattordici celle di cui sopra disposte con rigore geometrico su quattro file (4,3,3,4), architettura perfettamente speculare di quella dell’eremo di Monte Rua.

Ogni casetta era composta da una camera per il riposo e lo studio, una cappella con altare e una legnaia; all’esterno ogni cella aveva un piccolo orto recintato da un muro.

Nella parte sottostante delle quattro celle rimaste, sono conservati anche dei laboratori adibiti dai monaci probabilmente a magazzini per il deposito dei raccolti, ad officine varie o a cantine.

Il palazzo fu adibito in gran parte a casa comune: qui i monaci si ritrovavano a conversare e a mangiare nel refettorio. Una piccola parte era invece destinato a foresteria, atto a ospitare i viandanti che qui chiedevano ospitalità.

I monaci costruirono anche varie dipendenze, officine, servizi, oratori e le mura claustrali, un vero e proprio paese chiuso nella meditazione, nella preghiera e nel lavoro. Ad onorare quella che era la regola prima dei monaci benedettini dai quali derivavano i camaldolesi: “Ora et labora”.  

Nel piccolo e ordinato orticello a lato di ogni cella, infatti, i monaci, oltre a pregare e meditare, coltivavano ciò che serviva loro per sopravvivere.

Inoltre, bonificarono i terreni ricevuti in dono e piantarono viti e alberi da frutto.

In solitudine e, per la maggior parte del tempo, in severa clausura.

Molti personaggi illustri, oltre ad Alvise Canal, cercarono indulgenza contribuendo alla costruzione delle celle, tra gli altri ricordiamo: Giacomo Monari da Ceneda, il Cardinale di Padova, il Vescovo di Ceneda, i nobili di Conegliano Sarcinelli e Montalban.

Nel 1806 le leggi napoleoniche imposero la chiusura dell’eremo che finì, in parte, in rovina.

Nel 1876 parte dell’Eremo venne acquistato dall’amministrazione comunale, che trasformò lo storico palazzo in Sede Municipale, e, “ la costruzione che continua il palazzo”, l’’ex canonica negli anni ’70, servì come sede della scuola media.

L’amministrazione comunale adibì anche le quattro celle ad aule scolastiche.

La cella vicina al campanile venne anche utilizzata anche come ufficio postale (1932).

La vecchia chiesetta dei camaldolesi fu ampliata e modificata in varie fasi ma conserva ancora l’identica posizione della precedente.

Una piccola curiosità: ai piedi dell’eremo, vi è un crocifisso, moderno, sorretto da una pietra invece molto antica. Vi è incisa questa ammonizione: “Le donne non passino questa croce sotto pena di scomunica”.

Una preziosa testimonianza di un tempo diverso, retaggio di antiche e severe regole che per fortuna non esistono più.

È giusto ricordare però che i monaci furono una vera e propria benedizione per i luoghi del Feletto, dove per 150 anni affiancarono la loro instancabile opera alla preghiera e alla meditazione.

Portando non solo il nome ma anche un prezioso contributo di crescita all’intera comunità di Rua di Feletto.

VIADebora Donadel
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