La pandemia ha fermato i Panevin anche quest’anno!
Ma perché il falò della sera del 5 gennaio è così importante e dispiace così tanto non poter celebrare questa antica tradizione?
Ho raccolto qui parte di un bell’articolo di Enrico Dall’Anese che potete trovare per intero, insieme a molte altre informazioni sull’Alta Marca Trevigiana, nel sito istituzionale del Consorzio Pro Loco Quartier del Piave (link diretto del libro “Guida all’Alta Marca Trevigiana” qui).
Il professor Dall’Anese ripercorre la tradizione del Panevin traducendo parte del materiale raccolto nel libro “El panevin: tradizioni popolari del Quartier del Piave e della Val Mareno” scritto in collaborazione con il professor Paolo Martorel nel lontano 1982.
El panevin
La sera precedente l’Epifania, un po’ dovunque nel grandioso anfiteatro pedemontano, nelle aie dei poderi un tempo, nei posti più in vista oggi, si accendevano grandi fuochi dando vita a un suggestivo spettacolo di stupenda bellezza.
Era ed è la sera del panevin, detto anche in qualche parte del Quartier del Piave e della Vallata, fogherata o buberata.
Bambini e adulti preparavano per tempo cataste di rovi, canne di granoturco, sterpaglie, tralci di vite, ginepro, stoppie, frasche, fascine, fogliame inutilizzato, trucioli, che accendevano verso sera, allo scoccare dei rintocchi dell’Ave Maria, alla presenza di tutta la gente della contrada o della borgata.
È una tradizione viva ancor oggi in tutta la zona, ultimo simbolo di una civiltà agricola scomparsa sotto l’incalzare dell’industrializzazione.
Una tradizione, oggi praticata con accenti del tutto folcloristici, che un tempo manifestava invece un intenso contenuto sacrale e simbolico.
Dello spirito autentico di tale usanza sopravvissuta lungo i secoli alle evoluzioni culturali, ci resta ormai solo qualche labile rievocazione delle persone più anziane.
Gli auspici
Mentre il panevin bruciava e i rovi scoppiettavano, i contadini traevano gli auspici per l’annata, osservando soprattutto la direzione del fumo e delle faville, dette fuive, buizhe, fuische.
Se le faville sciamavano verso occidente il raccolto sarebbe stato abbondante, se tendevano verso oriente l’annata agricola sarebbe stata scarsa:
Fun verso sera poenta pien caliera fun verso matina ciol su ’l sac e va a farina.
E altrove:
Fuive verso sera poenta pien caliera fuive verso matina poenta molesina fuive a meodì poenta tre olte al dì fun a basa poenta pien cassa.
Verso la fine della buberata i ragazzi tentavano di saltare le braci del fuoco.
Anche questo era di auspicio: come riuscivano a saltare il falò, così sarebbero riusciti a superare le difficoltà dell’annata e gli ostacoli della vita.
La pinzha
Dopo aver tratto gli auspici, mentre la buberata si consumava, il rito del panevin prevedeva di mangiare la pinzha, detta anche focaccia e pane giallo, fuazha e pan dal.
La ricetta tradizionale prevede un impasto di farina gialla di granoturco, fichi secchi, uva passa, qualche seme di finocchio; altri ingredienti erano talvolta la farina di segala e la zhuca santa.
Cotta precedentemente sul larin (caminetto) sotto la cenere o contemporaneamente sotto la brace della buberata, veniva consumata tra canti e grida di festa, insieme al vin brulé, vino nuovo riscaldato con l’aggiunta di fettine di limone o di mele, droghe alimentari (cannella in cana e broche de garofano) e un po’ di zucchero.
Evviva ’l panevin a pinzha sul larin la poenta sul fondal el vin in tel bocal eviva carneval.
In alcune località, attorno al panevin, si consumavano pinzhe di sette diverse qualità, fatte da sette diverse mani: era un segno di buona fortuna nelle relazioni con gli altri e la comunità paesana. Ma anche il richiamo biblico ai sette giorni della creazione era evidente.
Dopo la pinzha si mangiavano talvolta le salsicce di carne di maiale ucciso da poco luganeghe e figalet cotti sulla brace del larin:
Dio ne dae bontà e sanità Pan e vin La pinzha sul camin, la luganega sul bachet eviva ’l vecio Simonet.
Ogni contrada aveva il suo vecchio particolarmente saggio, stimato e anche un po’ scherzoso che, per esigenze di rima si chiamava di volta in volta Simonet, Giacomet, Met, Benedet, Marchet…
I canti
Canti e danze si susseguivano in allegria:
Magnon, cantòn, prima pregòn e dopo balòn…
I contenuti delle canzoni si alternavano tra sacro e profano.
Talvolta il panevin iniziava al canto delle Litanie dei Santi. Altro canto tipico era la Pastorela, che narrava la nascita di Gesù. Si iniziava a cantarla durante i filò, la vigilia di Natale e si terminava appunto la sera del panevin.
Venivano recitate e cantate anche filastrocche beneauguranti per la nuova annata:
Qua pan qua vin qua lane e lin qua vedei e porzhei e la grazhia de Dio sui caretei el Panevin!
Il riferimento al granoturco, una delle colture prevalenti era frequente:
stringhe stringhe bigatèle che le biave vegna bèle da lontan e da vizhin viva viva ‘l panevin.
Quello che si chiedeva al panevin era l’indispensabile per vivere:
Pan e vin la pinzha sul larin la massera sua panera el paron sul caregon el bambin sul so letin…
E nutrire i figli:
Dio ne mande figadei Par sti pore tosatei Che i se onde boca e dei…
Senza però dimenticare chi era nella miseria:
Pan e vin carità e sanità par i poret che no ghe n’à.
Dopo il panevin ci si ritirava in casa, dove talvolta si consumava la minestra e il pezzo di carne di maiale conservato per quel giorno. Sul larin grossi ceppi di legna riscaldavano l’ambiente, mentre si continuavano ad attingere robusti boccali di vino.
Era una serata da trascorrere in allegria e, come narravano storie e leggende, non si poteva far filò nella stalla, né si poteva rimuovere il palo di sostegno del panevin prima di otto giorni, poiché ci si sarebbe ammalati di febbri malefiche. Si terminava a notte fonda.
Solo i bambini erano andati a letto, subito dopo il panevin: l’indomani, giorno dell’Epifania, sarebbe stata la loro festa.
La Vecia
Il rito del panevin culminava nel brusar la vecia, che simboleggiava l’anno vecchio, spesso poco favorevole. Per esorcizzarlo bisognava bruciare il suo fantoccio, costruito con tele di sacchi vecchi riempite di canne, scarthoze (i cartocci del granoturco), fieno ed erbe secche. La vecia, veniva conficcata sul palo di sostegno del panevin.
Incenerire questa figura che rappresentava l’anno vecchio era un gesto di punizione simbolica della vecia che si era portata via parte dei raccolti:
El panevin la vecia sul camin la magna pomi coti e la ne asa i rosegoti.
O della vendemmia:
Eviva ’l panevin la vecia sul casin che la ne bef al vin el panevin.
Tolta di mezzo questa inquietante figura, non restavano ostacoli alla speranza di un raccolto più abbondante per il prossimo anno:
Panevin panevin la pinzha sul larin la vecia sote tera eviva la panera.
La Befana
La festa dell’Epifania non aveva un particolare rilievo nel mondo degli adulti. Essa concludeva le festività natalizie, come ricordava il proverbio popolare: l’Epifania tutte le feste scoa via.
Anche in chiesa non c’erano riti e cerimonie che distinguessero questa ricorrenza dalle altre. Il racconto del Vangelo di quel giorno, che ricorda i tesori offerti dai Magi al Bambin Gesù, ha fatto nascere la tradizione della festa della Befana, chiamata nella zona anche Mantovana, o Deròsega.
Dopo il panevin, dunque, i bambini preparavano la calzetta e la appendevano alla catena del camino perché la Befana la riempisse di doni.
Valori cristiani e pagani
Il panevin è il simbolo più significativo di un passato la cui religiosità sapeva accostare, senza offesa, valori cristiani e pagani.
La tradizione fa parte degli antichissimi riti agrari, nati con l’uomo preistorico, alimentati dal suo costante timore, durante il solstizio invernale, di perdere il sole e di vedere così esaurirsi le forze della vegetazione, le fonti della vita.
Il rito aveva forse il significato di esorcismo contro l’inverno che genera la morte arborea e conteneva in sé la capacità di rigenerare la fertilità della terra.
Segno di questa rigenerazione era il fuoco, il cui significato simbolico nella cultura popolare richiama il concetto di potenza vivificatrice: il suo calore invitava la gente a stare insieme e metteva in fuga il gelo della solitudine.
E tale potenza rigeneratrice si propagava alla comunità, agli animali e all’intero universo, come dimostra l’usanza di spargere le ceneri della buberata nei campi, nei pollai, nell’acqua dell’abbeveratoio del bestiame; così il salto del fuoco o della brace da parte dei giovani prossimi al matrimonio assicurava loro abbondante figliolanza.
Il rito di consumare la pinzha, frutto del lavoro di tutti e scambiata fra tutti, aveva lo scopo di rinsaldare, come si è detto, i vincoli di solidarietà tra le famiglie della borgata e rafforzare i legami sociali nella collettività paesana.
Ricco di significati culturali era anche il rito di brusar la vecia.
La vecia, simbolo di maleficio, si consumava bruciando e con essa scomparivano i germi delle disgrazie e la morte veniva espulsa dalla comunità: non a caso erano i bambini stessi, simbolo della vita, a preparare il fantoccio.
Dalle ceneri della vecia, purificate dal fuoco, nasceva la buona vecchia, la Befana, che porta i doni e con essi la speranza della buona annata.
La Befana portava anche mele, simbolo di fertilità e di salute; mentre ai bambini cattivi recava il carbone, testimonianza di credenze agrarie e simbolo dello spegnersi del fuoco, dell’esaurirsi della vita.
I doni, d’altra parte, come rammentano i Magi d’Oriente, rivelavano che ciascuno viveva dell’altro e si rivolgevano in primo luogo ai bambini, in quanto “frutti” dell’uomo, per accentuare il valore simbolico dell’offerta.
A questi valori atavici di una liturgia pagana il Cristianesimo, dunque, ha sovrapposto i suoi simboli.
La luce del panevin rischiara il cammino dei Magi che si recano a visitare il Bambinello, simbolo della vita.
I tre Magi erano rappresentati, in qualche contrada, dai tre pali di sostegno della catasta di rovi, e, per offrire maggiormente la sua luce, il panevin doveva essere allestito possibilmente sopra un’altura.
Esso veniva acceso al suono della campana dell’Ave Maria e tra i canti che si intonavano attorno al fuoco c’erano le litanie dei santi.
Il progetto Panevin del Quartier del Piave nasce dalla volontà di far rivivere e valorizzare la tradizione contadina del Panevin. Grazie al coordinamento del Consorzio, dal 1992 la notte del 5 gennaio, sono oltre 40 i Panevin accesi contemporaneamente al suono prolungato dell’Ave Maria. Ogni anno, il fuoco viene benedetto in una diversa località, dalla quale partono poi le staffette per portare il fuoco in tutti gli altri Panevin del territorio.
Il Consorzio si è impegnato affinché gli organizzatori dei Panevin non utilizzino materiali inquinanti, petardi e fuochi d’artificio, diffondendo invece canti popolari e la degustazione della “pinza”, dolce tradizionale che veniva preparato proprio in questa occasione.
E infatti le Pro Loco hanno gestito questa manifestazione nel massimo rispetto dell’ambiente. Hanno anzi cercato di sensibilizzare la gente, affinché il falò, allestito “privatamente”, non diventasse un opportuno pretesto per sbarazzarsi di ingombranti rifiuti.
Insomma, da un lato, nel rispetto delle leggi vigenti, e dall’altro nell’intento di non abbandonare un rito così significativo, si è fatto strada il concetto di arrivare il più possibile ad un panevin Ecologico.
Roberto Franceschet, presidente del Consorzio Pro Loco Quartier del Piave, dal libro dedicato ai 25 anni del Panevin nel Quartier del Piave (che potete trovare, gratuitamente, qui!):
“Fino agli anni settanta del secolo scorso erano numerosi i panevin allestiti nelle borgate, nei paesi, presso le famiglie contadine. La loro accensione, la sera della vigilia dell’Epifania, dava luogo ad uno spettacolo davvero suggestivo. Poi, con l’avvento dell’industrializzazione, anche questa usanza andò scomparendo.
Nel 1992 il Consorzio Pro Loco Quartier del Piave, decise di coordinare questa iniziativa.
Con l’aiuto di Paolo Martorel e Enrico Dall’Anese si è iniziato a programmare l’iniziativa, fu ideato un manifesto unitario, con la realizzazione grafica dell’artista Enrico Tonello. Si concordarono alcuni accorgimenti per rendere la tradizione più consona al significato che rivestiva in passato.
Fu chiesta la collaborazione dell’Avis e dell’Aido e di altre Associazioni di volontariato. Questo perché una delle simbologie del Panevin era lo spirito di solidarietà che si manifestava tra i membri della famiglia patriarcale, della borgata, dei nostri villaggi. E oggi la solidarietà gratuita nelle forme moderne è appunto espressa da tali associazioni.”
Proprio per non dimenticare è stato chiesto ai vari organizzatori di accendere comunque un piccolo e semplice braciere simbolico che unisca e identifichi tutte le Pro Loco e di documentare il tutto con foto e video in modo da tenere memoria di questa attività.
[…] abbiamo parlato ampiamente in questo articolo qui nel nostro blog approfondendo i vari aspetti della tradizione con brani tratti dal libro “El […]
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