Quando i migranti erano i nostri nonni

L’emigrazione dal Quartier del Piave di fine ‘800 verso le Americhe e quella stagionale nel secondo dopoguerra

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Il Grande Esodo

La prima ondata migratoria vissuta dai paesi del Quartier del Piave iniziò intorno al 1870.

Alla base di quel flusso migratorio, chiamato il “Grande Esodo” e indirizzato per lo più verso le Americhe, vi era principalmente una condizione di estrema miseria e povertà: in quegli anni, infatti, vi fu un calo della richiesta di manodopera in tutto l’impero Austro-Ungarico e la tassa sul macinato che mise in ginocchio le popolazioni rurali già in precarie condizioni.

Gli emigranti cedevano così facilmente alle lusinghe degli agenti dell’emigrazione che davano loro un’immagine edulcorata dell’America, definito spesso come il paese della rinascita, del riscatto, in breve: il paese della “cuccagna”.  Fu inoltre instaurata una politica di facilitazioni per i migranti da parte dei paesi di destinazione che arrivavano a pagare il viaggio e spesso a garantire loro anche una piccola proprietà.

In Brasile, per esempio, dopo la legge che affrancava la schiavitù (1869) e quella che l’aboliva definitivamente (1889), il bisogno di manodopera nelle piantagioni di caffè era diventata una vera e propria emergenza economica.

Qualche dato…

Dal 1876 al 1900 emigrarono 940.711 veneti, il 17,9% della popolazione; dal 1901 al 1915 altri 882.082, uno ogni 10 abitanti. Per dare un’idea dei numeri relativi al Quartier del Piave: a Farra di Soligo, su una popolazione di 4150 abitanti partirono ben 407 persone, per lo più verso il Brasile, a Moriago 238 su 2090 verso l’Argentina.

La Merica, però, rappresentò per molti una speranza tradita. I nostri italiani si trovarono in condizioni di estrema miseria e povertà con l’aggiunta, una vera e propria beffa, della grande nostalgia di casa. Anche per questo, le comunità d’oltre oceano, si strinsero in una fitta rete di solidarietà e difesero, con tenacia e perseveranza, la loro lingua, le loro tradizioni, la loro cultura.

Forse fu proprio questo ferreo attaccamento ai valori delle origini a dar loro la forza di andare avanti, di sopportare condizioni di lavoro e di vita altrimenti difficilmente tollerabili. E, nella maggior parte dei casi, a riscattarsi, e a costruire, loro stessi, la fortuna che speravano di trovare nella terra dalle mille possibilità.  

Ancora oggi in molti paesi del Brasile e dell’Argentina ci sono paesi con gli stessi nomi dei nostri, tradizioni che qui da noi sono andate dimenticate, lì continuano con una fedeltà emozionante. Si sono tramandate ricette, orazioni, riti, dialetti…

Nel sud del Brasile la massiccia emigrazione veneta ha dato origine a una vera e propria lingua: il Talian, parlato da circa 500 mila persone solo nella regione del rio Grande do Sul. Al Talian sono stati dedicati due dizionari, una grammatica e, nel 2013, è nata una rivista, “Brasil Talian” allo scopo di diffonderne l’uso. Sempre in Brasile sono inoltre attive circa 200 radio che trasmettono programmi in Talian: il più famoso, “Taliani nel mondo”, realizzato da Edgar Maróstica nella città di Serafina Corrêa è nel palinsesto di ben 40 radio!

Canto degli immigrati veneti:

Dalla Italia noi siamo partiti
Siamo partiti col nostro onore
Trentasei giorni di macchina e vapore,
e nella Merica noi siamo arriva'
Merica, Merica, Merica,
cossa saràlo 'sta Merica?
Merica, Merica, Merica,
un bel mazzolino di fior.
E alla Merica noi siamo arrivati
no' abbiam trovato né paglia e né fieno
Abbiam dormito sul nudo terreno
come le bestie andiam riposar.
E la Merica l'è lunga e l'è larga,
l'è circondata dai monti e dai piani,
e con la industria dei nostri italiani
abbiam formato paesi e città.

Una curiosità che fa riflettere. Un proprietario terriero, originario della provincia di Treviso, rispondendo a chi chiedeva perché tutta questa gente partiva dall’Italia, rispose: «Partem aqueles que buscam melhores condições de vida e que têm a vontade e o hábito de trabalhar» (partirono quelli che cercavano migliori condizioni di vita e che avevano la volontà e l’abitudine di lavorare). Sempre secondo lui, «Permanecem: os ociosos e os viciosos» (rimanevano: l’ozioso e il vizioso).

(testimonianza di G. Battista De Zen di Maser, in Casarin, 1990, p. 125)

Tuttavia fu l’emigrazione temporanea quella che segnò più duramente la storia dei nostri paesi.

Nel secondo dopoguerra la situazione nel Veneto orientale, era a dir poco tragico. Dopo un ventennio passato a ricostruire, con fatica e scarsità di mezzi, a risollevarsi dalla devastazione della Grande Guerra, questi territori subirono ancor di più le vicende della seconda guerra mondiale. La povertà era drammatica, non c’era lavoro e decine di giovani, figli, mariti, padri, non ebbero altra scelta che cercare fortuna in Francia, Svizzera, Belgio. A volte sceglievano la rischiosa via (clandestina) dei passi alpini; spesso si affidavano ai “passeurs”, dei veri e propri trafficanti di uomini.

Gli uomini partivano in primavera, per ritornare durante l’inverno portando a casa i soldi che permettevano alla famiglia di sostenersi.

Era una vita durissima: lasciavano a malincuore le famiglie per andare a lavorare con orari durissimi, alloggi promiscui e trattamenti molto spesso umilianti.

Ma anche per le famiglie che restavano non era facile: mogli con figli piccini, genitori anziani, soli, spesso con campi e casa da mandare avanti comunque.

Negli anni ’50, a Sernaglia della Battaglia, in pratica tutti gli uomini lavoravano all’estero.

C’era, è vero, una solidarietà diversa, delle comunità unite che si sostenevano nei momenti difficili. I sacrifici erano tanti, ma erano di tutti.

A questo proposito, non possiamo non ricordare, l’impegno del sindaco-poeta Giocondo Pillonetto, che proprio a Sernaglia aiutò Lino Gobbato a far nascere una delle prime associazioni di emigranti in Italia. Lo scopo iniziale e principale era molto triste ma allo stesso modo molto sentito: portare a casa e seppellire nella loro terra i lavoratori morti all’estero. Nel tempo, l’associazione divenne un punto di riferimento per aiutare le famiglie che subivano i lutti, o semplicemente quelle in difficoltà durante l’assenza dei loro cari.

Giocondo Pillonetto inaugurò la prima sfilata di carri mascherati di carnevale, proprio nell’intento di creare una festa gioiosa, per salutare gli emigranti in partenza dopo la pausa invernale. L’associazione emigranti partecipava alla sagra con grande entusiasmo, organizzava poi pranzi, feste. Nonostante i lunghi mesi di assenza, grazie a queste attività, gli emigranti rimanevano, lo stesso, fulcro e identità del paese. Fu per questo che, nel 1967, quando lo sviluppo economico fermò finalmente l’emorraggia dei lavoratori verso l’estero che fu installato il monumento agli emigranti, creato da Eugenio Villanova, detto “Battiferro”: una statua ferrosa, un emigrante con la lampada da minatore in mano per indicargli il cammino che sale un emisfero di pietra.

“Ai nostri uomini sparsi per il mondo come il grano”, l’iscrizione, semplice e poetica ci riporta ai versi di Pillonetto che tanto ha avuto a cuore le gesta degli emigranti.

E torni ai tuoi cari

corrotti dal gelo delle rotaie

finalmente potrai baciare

i volti dei tuoi bimbi

ancor freddi del gelo

delle infinite rotaie

ancor freddi della dimenticanza

del padre.

All’emigrante-5, 1956, Giocondo Pillonetto
VIADebora Donadel
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